lunedì 3 dicembre 2012

Capogrossi in mostra fino a febbraio al Peggy Guggenheim

Fino al 10 febbraio al Peggy Guggenheim di Venezia è protagonista la retrospettiva dedicata a Giuseppe Capogrossi, uno dei principali protagonisti della scena artistica del secondo dopoguerra italiano. L’arte di Capogrossi, identificata con il gusto dell’Italia fiorente e ottimista degli anni ’50 e ’60, ha contaminato l’architettura, il design e anche la moda contribuendo al formarsi dell’“Italian Style”.
Realizzata in collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi, la antologica traccia l’evoluzione pittorica dell’artista con oltre 70 opere tra dipinti e lavori su carta, dai capolavori figurativi degli anni 30 fino ai grandi formati astratti degli anni 60, dall’analisi del rigore del segno all’orchestrazione del segno-colore.
I lavori in mostra provengono da collezioni private e musei tra cui il Centre Pompidou di Parigi, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il Mart di Rovereto, oltre al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, dove Capogrossi è presente fin dal 1958, anno dell’acquisizione della tela “Superficie 210″ (1957).
Una vita dedicata a un segno: all'elemento, come lo chiamava lui. A smussarlo, limarlo, correggerlo, combinarlo, incastrarlo in mille modi diversi, sempre unici. La ricerca di Giuseppe Capogrossi è stata un ricerca prima di tutto intellettuale, concettuale, sofferta, che ha impegnato un'intera vita per sfrondare il segno del superfluo e ritornare alla forma primigenia, al tratto primordiale.
La mostra che ci propone in questi giorni Luca Massimo Barbero, ospitata alla Peggy Guggenheim collection di Venezia, ci aiuta a guardare con occhi nuovi all'unico artista italiano che nel dopoguerra sia stato capace di inventare qualcosa di originale a livello delle avanguardie internazionali. Come già era successo per la mostra "Venice New York" di Lucio Fontana, che aveva offerto a pubblico e critica delle nuove chiavi di lettura sull'opera del "maestro dei tagli", così anche per questa nuova esposizione Luca Massimo Barbero ci apre nuove porte davanti ad un universo di interpretazioni. Dimenticate il pittore dei "pettini", delle "forchette" o dei "tridenti", come Capogrossi è stato troppo banalmente classificato. Il viaggio che il curatore ha ideato per questa retrospettiva parte da lontano, dalle prime prove di Capogrossi, quelle degli anni Trenta, della Scuola romana, piene di una forza espressiva in cui già si intuiscono alcuni elementi che diventeranno fondamentali per la ricerca più matura. Come nel caso dell'Annunciazione, dove alle spalle di due figure sospese in un mondo metafisico si intravvedono delle nuvole che già disegnano uno spazio "pieno di vuoto".
Si procede in ordine cronologico, con un allestimento che anche nel gioco dell'illuminazione delle sale è funzionale all'effetto di creare degli "spazi" vivi, con prove ancora figurative come "I canottieri" o la "Piena sul Tevere", gli "Studi di finestre" o la svolta cubistica delle "Due chitarre", fino ad arrivare ad una esplosione di bianco e nero, la stessa di fronte alla quale si vennero a trovare critici e pubblico all'esposizione romana del gennaio 1950, in cui compare per la prima volta l'"elemento".
Capogrossi è nobile e intellettuale anche nel gesto pittorico; dipinge in piedi, con la tela orizzontale appoggiata su un tavolo. La sua prospettiva visiva e la sua prossemica sono concepiti per mantenere la distanza dal dipinto, per idealizzarlo, concettualizzarlo.
I colori intervengono nella maturazione della concezione, danno forza, vigore alla composizione. È come attraversare una foresta buia e farsi strada poco a poco tra i rami e le sterpaglie: alla fine tutto assume un senso e un significato, gli elementi si combinano e creano un percorso preciso che diventa chiaro anche al visitatore. Rendendo la potenza materica dell'elemento immerso in un violento contrasto di colori, si delinea una strada, un percorso da cui non si può deragliare, come se si trattasse degli ingranaggi di una cremagliera.
"La mia ambizione - scriveva Giuseppe Capogrossi - è di aiutare gli uomini a vedere quello che i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni e azioni." Per questo la sintesi di quel segno, primitivo e antidecorativo al tempo stesso, ha richiesto anni di lavoro, di maturazione e di combinazioni sempre differenti, mai ripetitive. Non chiamatelo "pettine", spingetevi oltre.